Il mais in Italia

Il mais rappresenta una delle grandi produzioni agricole del nostro Paese.

Il suo contributo al valore della produzione agricola nazionale è attualmente pari a circa 2000 milioni di euro che corrispondono al 4% del totale del valore agricolo. La sua produzione in granella è pari a circa 11 milioni di tonnellate che vengono ottenute dalla coltivazione di 1,1 milioni di ettari su un totale di circa 13 milioni di ettari di superficie agricola utilizzata (SAU) a livello nazionale. La sua distribuzione a livello territoriale appare fortemente concentrata nelle due circoscrizioni settentrionali del nostro Paese che arrivano a oltre il 90% del totale, ma ciò non significa che la sua importanza sia confinata territorialmente alle sole regioni citate, poiché esso è la base per l’alimentazione di tutto il patrimonio zootecnico italiano.

La dinamica delle superfici e delle produzioni del mais da granella in Italia mostra che nell’ultimo quindicennio vi è stata una crescente affermazione di questa coltura. Gli effetti del progresso tecnologico misurati attraverso la dinamica delle rese unitarie della produzione sono, a loro volta, in sintonia con quelli più generali registrati negli altri Paesi europei. Al di là di fenomeni episodici, la media nazionale da circa un decennio risulta superiore a 9,5 t/ha, un risultato da considerare molto lusinghiero poiché è superiore alla media europea, ma che tuttavia non sembra indicare una chiara tendenza verso ulteriori incrementi. La distribuzione territoriale della coltura conferma la forte concentrazione nelle circoscrizioni territoriali settentrionali. Nel tempo si registra una progressiva riduzione dell’importanza del mais nelle aree centromeridionali e insulari del Paese e un consolidamento della concentrazione nel nord e in particolare in alcune province. Considerando infatti l’intero territorio nazionale si può facilmente rilevare che quattro sole province, Cremona, Padova, Brescia e Mantova, concentrano il 26% della produzione nazionale e che le prime 10 arrivano al 56% del totale. Nella cartina a fianco sono colorate in rosso la province che concentrano il 50% della produzione e in giallo quelle che portano il totale all’80%. Come si vede siamo in presenza di una specie di corn belt italiano che attraversa tutta la Pianura Padana in senso orizzontale e che fornisce il grosso della produzione nazionale. La superficie complessiva è andata crescendo nel corso degli anni, come si diceva all’inizio. Se si vogliono differenziare le due principali destinazioni fra la produzione di granella e quella di foraggio si può vedere che la prima è salita, nel periodo preso in esame, da 850.000 a quasi 1.200.000 ha mentre quella a foraggio si è ridotta da circa 320.000 a 280.000 ha. Per effetto di queste variazioni che si sono mosse in senso opposto, il peso della superficie a granella è salito dal 73% all’80% mentre quella a foraggio è scesa dal 27% al 20%. La superficie complessiva a mais è salita del 19%, perciò per l’effetto combinato delle due dinamiche quella a granella è aumentata del 31% mentre quella a foraggio si è contratta del 15%. L’evoluzione esposta più sopra è strettamente connessa alle modalità di commercializzazione e di utilizzo del mais nell’alimentazione animale nel nostro Paese che si sono orientate a favore dell’impiego della granella.

Mercato del mais

Gli scambi commerciali di mais da granella sono piuttosto limitati e si attestano, con l’eccezione del 2004 che però seguiva la campagna anomala del 2003, attorno a 140 milioni di euro, in prevalenza relativi a importazioni provenienti da paesi europei. Le esportazioni, ancora più modeste, sono a loro volta dirette a paesi della stessa area, membri dell’Ue con la sola eccezione della Svizzera. Dal punto di vista del mais da granella, dunque, il nostro paese presenta una situazione di sostanziale pareggio fra produzione e consumi, con una lieve prevalenza di questi ultimi che emerge attraverso l’analisi del bilancio di approvvigionamento. Quest’ultimo tiene conto sia del mais che dei suoi derivati. Nelle annate normali, come è stato da questo punto di vista il 2003, il grado di autoapprovvigionamento è nell’ordine del 96%, mentre nell’anno successivo che si è basato sulla produzione conseguita nel 2003 ma utilizzata nel 2004, il grado di autoapprovvigionamento è sceso al di sotto del 90%. Nel 2005, come si può vedere, il tasso stesso è tornato prossimo al 96% come in passato. Dai dati esposti emerge con chiarezza l’importanza dell’utilizzo zootecnico del prodotto rispetto agli altri impieghi che comunque rimangono, nel nostro Paese, al di sotto della media europea.

Aspetti economici

Il prezzo del mais negli ultimi anni non è stato particolarmente interessante all’interno dell’Ue, in linea con quanto avveniva nello stesso tempo sul mercato mondiale. La sua dinamica nel nostro Paese mostra una tendenza alla riduzione che si mantiene evidente per tutto il periodo. Il prezzo di intervento unico dei cereali rappresenta, di fatto, il sostegno di tutto il sistema dei prezzi e in teoria dovrebbe essere una sorta di prezzo minimo al di sotto del quale il mercato non dovrebbe spingersi. Non è così in realtà, per una serie di motivi “tecnici”, ma si può ragionevolmente ritenere che esso comunque rappresenti il piano d’appoggio su cui si collocano i prezzi di mercato. Quando questi per motivi vari, in genere di carattere congiunturale come fu nel 2003, ovvero per fattori esterni, come l’attuale ondata rialzista delle materie prime, tendono a salire, possono farlo lasciando a distanza il prezzo di intervento europeo. Quando, al contrario, le quotazioni scendono, quest’ultimo tende a fornire un supporto che si è sempre dimostrato di una certa efficacia. L’attuale prezzo del mais tende ad avvicinarsi a quello mondiale e a seguirlo nelle sue evoluzioni, ma comunque seguendo la generale evoluzione dei prodotti agricoli che si presentano fluttuanti nel lungo periodo, ma tendenzialmente al ribasso. Infine, un aspetto rilevante dal punto di vista economico è costituito dalla redditività della coltura. Un modo per riuscire ad avere qualche indicazione in merito consiste nel mettere a confronto la dinamica dei prezzi con quella dei costi. I dati disponibili riferiti al periodo 2000-2006 indicano che in linea di massima i costi sono saliti di più dei prezzi. Il quadro così tracciato è condiviso con la maggior parte delle produzioni agricole ed è, tuttavia, più marcato per i prodotti come il mais che sono oggetto di un’ampia commercializzazione a livello internazionale. È chiaro che in futuro, con l’ulteriore riduzione dei meccanismi di protezione dell’Ue, queste situazioni si ripeteranno con frequenza superiore che in passato, data la maggiore irregolarità del mercato mondiale rispetto alla relativa stabilità un tempo esistente nell’Ue, esponendo così le produzioni europee ai rischi del mercato. Occorre perciò pensare per tempo a soluzioni per migliorare questa situazione.

Problemi aperti e opportunità

Nel suo insieme la situazione del mais presenta una serie di aspetti comuni alle altre colture accanto a problematiche del tutto specifiche che ne fanno un caso di interesse particolare, ma che, soprattutto, la collocano al centro di un insieme di opzioni che configurano modelli diversi di agricoltura. Occorre peraltro ricordare che quando si parla di mais, nell’attuale contesto economico e produttivo occorre accantonare le immagini di un passato che ha segnato profondamente la vita e la società di molte regioni del nostro paese. Oggi il mais è, viceversa, la coltura emblematica di un’agricoltura moderna, aperta all’innovazione tecnologica, attenta ai calcoli economici e in rapida evoluzione. Ciò non significa che i suoi problemi siano minori o che la sue prospettive siano più rosee. Come tutti i settori dell’economia profondamente toccati dall’attuale fase evolutiva, anche la maiscoltura può essere avvantaggiata dalle novità che avanzano solo se si saprà affrontarla con un’adeguata preparazione, ma perché ciò avvenga deve riuscire a superare lo scoglio rappresentato dalla necessità assoluta di recuperare competitività, un obiettivo che non è da sottovalutare.

Mais e produzioni agricole italiane

Il primo problema da affrontare è il rapporto fra il mais e le altre produzioni agricole del nostro Paese. La forte accentuazione che è stata data negli ultimi anni alla valorizzazione dei prodotti tipici e quindi alla riscoperta dei gusti e dei sapori della tradizione sull’onda della crescente notorietà acquisita dagli alimenti italiani ha portato a operare una curiosa e ingiustificata contrapposizione fra quei prodotti e le colture agricole di grande estensione. Qualcuno si è spinto a dire, in questa sorta di manichea suddivisione, che andrebbero sostenuti solo i primi mentre le seconde dovrebbero essere praticamente lasciate al loro destino di produzioni di massa scarsamente qualificate. Per quelli si prospetta un mercato fatto di nicchie iperprotette e ben remunerate, per queste l’alea di una sfrenata competizione mondiale, senza regole e senza prospettive. In realtà questa logica è profondamente sbagliata perché dimentica, o sembra sottovalutare, il fatto che i più pregiati prodotti dell’agricoltura italiana e cioè i formaggi e i salumi, ma anche le carni delle razze italiane come la stessa fiorentina, si ottengono alimentando il bestiame con il mais e con gli altri cereali foraggeri. Non vi sarebbero né produzioni né esportazioni di prosciutti, per esempio, se non fossero sorrette da un’adeguata offerta di mais per alimentare i suini. Certamente in considerazione della natura di materia prima del mais, è in teoria possibile ipotizzare un ricorso sempre maggiore alle importazioni che probabilmente avverrebbero a prezzi più bassi, ma ciò solleverebbe almeno altri tre ordini di problemi:
a) verrebbe a cadere il legame con le produzioni agricole del territorio e quindi sarebbe minato alla base il concetto stesso di differenziazione del prodotto sulla base della provenienza dei suoi componenti; b) si avrebbe un forte ridimensionamento della produzione agricola locale e quindi un impatto economico negativo sul settore, sui redditi e sull’occupazione; c) si correrebbe il rischio di avviare un processo di delocalizzazione che riguarderebbe in un primo tempo la produzione e la fornitura delle materie prime per alimentare gli animali, ma che in seguito comporterebbe, in analogia con quanto è avvenuto in altri ambiti produttivi, il trasferimento delle fasi di lavorazione e trasformazione nonché del know how nei Paesi di produzione delle stesse materie prime. A tutto ciò si aggiungerebbe il fatto che i principali esportatori mondiali utilizzano in grande quantità OGM, che da noi non sono coltivati al momento per i noti motivi, e quindi si introdurrebbe ciò che non si vuole produrre e cioè gli OGM.
Nel complesso, quindi, il legame fra le grandi produzioni agricole di base come il mais e i gioielli dell’alimentare italiano è molto forte e di tipo funzionale all’esistenza e al mantenimento del modello di sistema agroalimentare italiano. Le due componenti non sono dunque antitetiche, anzi complementari. Ciò porta a concludere che anziché essere allentata l’attenzione, per esempio nei riguardi del mais, essa debba essere rafforzata per fare in modo di assicurare al resto della filiera agrozootecnica ciò che le permette di funzionare e di produrre ricchezza. Allo stesso modo, il rafforzamento e la valorizzazione dei prodotti alimentari di pregio sono alla base della formazione di una maggiore valorizzazione economica delle materie prime utilizzate per ottenerli. Siamo in presenza, è bene ricordarlo, non di una sommatoria più o meno casuale di produzioni, ma di un sistema in cui esse si integrano ottenendo un reciproco vantaggio. In questo senso, dunque, il futuro di questa coltura è strettamente connesso al futuro di un’importante quota dell’agricoltura italiana.

Tratto da: “Il mais” – Coltura & Cultura, AA.VV., Script Edizioni

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